Ore 20, Villafranca di Verona, entriamo nel grande spazio del Castello Scaligero. C'è parecchio pubblico ma non ci sono code all'entrata. Un cane della Guardia di Finanza (inteso come canide e quadrupede) ci annusa alla ricerca di droghe. Noi non ne abbiamo, ma il cane era evidentemente in overflow, sentiva erba ovunque, della presenza di maria se ne accorgono anche i nostri limitati nasi di umani.
Dentro ci troviamo con Umberto.
L'atmosfera è rilassata, manca la nevrosi da attesa tipica di tanti concerti. Suona il gruppo d'appoggio L'aura. Non sembra male, ma non prestiamo molta attenzione.
Ci stendiamo sull'erba e tra chiacchiere e risate aspettiamo l'inizio del concerto.
Penso che è bello guardare il pubblico dei concerti rock.
E' trasversale. Si va dal 18enne, che magari ha aspettato quel concerto come imminente per mesi, alla compagnia di amici variopinti, al piccolo burocrate di banca, che di corsa è passato da casa a smettere giacca e cravatta, ed indossare la maglietta di quando vide gli Iron Maiden nell'88.
Ci alziamo perché Ben Harper sta per fare la sua entrata.
Si parte subito con "Jah work" un pezzo affascinante che profuma di caraibi e di ritmi dolci e sensuali non più calypso non ancora reggae.
Splendida la ritmica del gruppo ben supportata dalle percussioni e da un basso molto molto funky.
Le canzoni si snodano fluenti, la musica sgorga senza soluzioni di continuità.
Ben Harper sul palco è un generoso e con il pubblico e con i suoi musicisti. Li lascia improvvisare. Alcuni brani, tra cui una stupenda "Better way", vengono dilatati nei generi e nel tempo, cantati dal pubblico entusiasta.
Mentre ascoltavo la musica muovendomi inconsciamente a ritmo e circondato da nuvole di fumo che ancora un po' condensavamo a scatenare un temporale d'erba, mi son ritrovato a viaggiare nel tempo trasportato dalle note.
Un viaggio bellissimo ed originale a percorrere tutta la storia della musica nera americana e oltre.
Canzoni che nascono nei campi di cotone, nenie di schiavi, ricordi di Africa mai vista, gospel, blues, jazz, calypso, reggae, soul, fusion, rock, James Brown, tanto tantissimo Jimi Hendrix, con quella chitarra che urla sulle ginocchia di Ben, e poi oriente, India, suono di sitar, musica psichedelica, il jazz elettrico di Bitches Brew, su, su ancora fino all'hip hop, a Prince.
Quando poi diventa acustico, Ben canta in un modo fantastico e si riconoscono nella sua voce le ballads di Otis Redding, di Marvin Gaye.
E' un viaggio, un caleidoscopio di colori e musica, e impressioni di volti appena scorti nella folla, persone riconosciute per un attimo.
Un'esperienza. Sembra un concerto degli anni 70, figli dei fiori, peace and love, senza però alcun fronzolo né ammiccamenti ruffiani.
Ben Harper ha assorbito come una spugna tutta la storia della musica nera americana, l'ha elaborata in modo personalissimo ed originale ed ora la regala al pubblico del concerto ed idealmente al mondo.
Volano una dopo l'altra in ordine sparso nelle nostre anime una rabbiosissima “Black rain”, “Diamonds on the inside”, “Excuse Me, Mr.”, “Waiting for you”, “Use me”, “With my own two hands” e poi ancora Otis, Jimi, Miles, Robert (Johnson), Marvin Gaye, Bill Whiters...
Il concerto finisce e siamo soddisfatti. Nessuna recriminazione, nessun rimpianto. In pace con noi stessi. Guardo il pubblico ed anche loro sono come noi, appagati.
Mentre usciamo dalle mura scaligere per andare a riprendere l'auto mi piace pensare che questa sera ottomila persone dopo quasi due ore e mezza di musica siano migliori, più ottimiste.
Sì mi piace pensare che dopo il concerto siamo tutti un po' migliori.
L'atmosfera è rilassata, manca la nevrosi da attesa tipica di tanti concerti. Suona il gruppo d'appoggio L'aura. Non sembra male, ma non prestiamo molta attenzione.
Ci stendiamo sull'erba e tra chiacchiere e risate aspettiamo l'inizio del concerto.
Penso che è bello guardare il pubblico dei concerti rock.
E' trasversale. Si va dal 18enne, che magari ha aspettato quel concerto come imminente per mesi, alla compagnia di amici variopinti, al piccolo burocrate di banca, che di corsa è passato da casa a smettere giacca e cravatta, ed indossare la maglietta di quando vide gli Iron Maiden nell'88.
Ci alziamo perché Ben Harper sta per fare la sua entrata.
Si parte subito con "Jah work" un pezzo affascinante che profuma di caraibi e di ritmi dolci e sensuali non più calypso non ancora reggae.
Splendida la ritmica del gruppo ben supportata dalle percussioni e da un basso molto molto funky.
Le canzoni si snodano fluenti, la musica sgorga senza soluzioni di continuità.
Ben Harper sul palco è un generoso e con il pubblico e con i suoi musicisti. Li lascia improvvisare. Alcuni brani, tra cui una stupenda "Better way", vengono dilatati nei generi e nel tempo, cantati dal pubblico entusiasta.
Mentre ascoltavo la musica muovendomi inconsciamente a ritmo e circondato da nuvole di fumo che ancora un po' condensavamo a scatenare un temporale d'erba, mi son ritrovato a viaggiare nel tempo trasportato dalle note.
Un viaggio bellissimo ed originale a percorrere tutta la storia della musica nera americana e oltre.
Canzoni che nascono nei campi di cotone, nenie di schiavi, ricordi di Africa mai vista, gospel, blues, jazz, calypso, reggae, soul, fusion, rock, James Brown, tanto tantissimo Jimi Hendrix, con quella chitarra che urla sulle ginocchia di Ben, e poi oriente, India, suono di sitar, musica psichedelica, il jazz elettrico di Bitches Brew, su, su ancora fino all'hip hop, a Prince.
Quando poi diventa acustico, Ben canta in un modo fantastico e si riconoscono nella sua voce le ballads di Otis Redding, di Marvin Gaye.
E' un viaggio, un caleidoscopio di colori e musica, e impressioni di volti appena scorti nella folla, persone riconosciute per un attimo.
Un'esperienza. Sembra un concerto degli anni 70, figli dei fiori, peace and love, senza però alcun fronzolo né ammiccamenti ruffiani.
Ben Harper ha assorbito come una spugna tutta la storia della musica nera americana, l'ha elaborata in modo personalissimo ed originale ed ora la regala al pubblico del concerto ed idealmente al mondo.
Volano una dopo l'altra in ordine sparso nelle nostre anime una rabbiosissima “Black rain”, “Diamonds on the inside”, “Excuse Me, Mr.”, “Waiting for you”, “Use me”, “With my own two hands” e poi ancora Otis, Jimi, Miles, Robert (Johnson), Marvin Gaye, Bill Whiters...
Il concerto finisce e siamo soddisfatti. Nessuna recriminazione, nessun rimpianto. In pace con noi stessi. Guardo il pubblico ed anche loro sono come noi, appagati.
Mentre usciamo dalle mura scaligere per andare a riprendere l'auto mi piace pensare che questa sera ottomila persone dopo quasi due ore e mezza di musica siano migliori, più ottimiste.
Sì mi piace pensare che dopo il concerto siamo tutti un po' migliori.
Yes I believe in a better world.
I can change the world with my own two hands.
I can change the world with my own two hands.
Umberto e Stefania, alla fine del concerto.
6 commenti:
Got it! I'm the first... Standing ovation per la recensione, per Ben (strepitoso il doppio Live from mars), per te e per Umberto e Stefania. (-_____-)
Good Night.
Bella recensione, complimenti!
Ben riesce sempre ad emozionarmi, è incredibile :-)
Caro Silvano, grazie della recensione, almeno hai dato un piccolo assaggio del concerto anche a chi non c'era. E' curioso constatare come le sensazioni di chi è appassionato di musica d'autore, quella dei veri musicisti e non di imbratta-spartiti, siano comuni a tutti.
Silvano
grazieeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeee
grazieeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeee
grazieeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeee
amo quell'uomo e la sua musica.
la sua chitarra...
commossa.
elsa
Le vicissitudini della vita ci hanno spesso portato a condividere, tra l'altro, molti concerti. Alcuni li hai/avete lasciati tu/voi per strada, altri io. Questo sembra proprio uno di quelli belli e grandi: perso! Grazie al tuo scritto lo sto un po' vivendo (l'odore dell'erba non lo sento però) e visto che Ben è giovane spero di poterne condividere future espressioni. Ciao e grazie.
Luka.
Silvano evvaiii !
Buona domenica.
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